Vincenzo Monti - Sermone sulla mitologia
Vincenzo Monti Sermone sulla mitologia Audace scuola boreal, dannando tutti a morte gli Dei, che di leggiadre fantasie già fiorîr le carte argive e le latine, di spaventi ha pieno delle Muse il bel regno. Arco e faretra toglie ad Amore, ad Imeneo la face, il cinto a Citerea. Le Grazie anch'esse, senza il cui riso nulla cosa è bella, anco le Grazie al tribunal citate de' novelli maestri alto seduti cesser proscritte e fuggitive il campo ai Lemuri e alle streghe. In tenebrose nebbie soffiate dal gelato Arturo si cangia (orrendo a dirsi!) il bel zaffiro dell'italico cielo; in procellosi venti e bufere le sue molli aurette; i lieti allori dell'aonie rive in funebri cipressi; in pianto il riso; e il tetro solo, il solo tetro è bello. E tu fra tanta, ohimè! strage di Numi e tanta morte d'ogni allegra idea, tu del Ligure Olimpo astro diletto, Antonietta, a cantar nozze m'inviti? E vuoi che al figlio tuo, fior de' garzoni, di rose còlte in Elicona io sparga il talamo beato? Oh me meschino! Spenti gli Dei che del piacere ai dolci fonti i mortali conducean, velando di lusinghieri adombramenti il vero, spento lo stesso re de' carmi Apollo, chi voce mi darà, lena e pensieri al subbietto gentil convenienti? Forse l'austero Genio inspiratore delle nordiche nenie? Ohimè! che nato sotto povero Sole, e fra i ruggiti de' turbini nudrito, ei sol di fosche idee si pasce, e le ridenti abborre, e abitar gode ne' sepolcri, e tutte in lugubre color pinger le cose. Chiedi a costui di lieti fiori un serto, onde alla Sposa delle Grazie alunna fregiarne il crin: che ti darà? Secondo sua qualitade natural, null'altro che fior tra i dumi del dolor cresciuti Tempo già fu, che, dilettando, i prischi dell'apollineo culto archimandriti di quanti la Natura in cielo e in terra e nell'aria e nel mar produce effetti, tanti Numi crearo: onde per tutta la celeste materia e la terrestre uno spirto, una mente, una divina fiamma scorrea, che l'alma era del mondo. Tutto avea vita allor, tutto animava la bell'arte de' vati. Ora il bel regno ideal cadde al fondo. Entro la buccia di quella pianta palpitava il petto d'una saltante Driade; e quel duro artico Genio destruttor l'uccise. Quella limpida fonte uscìa dell'urna d'un'innocente Naiade; ed, infranta l'urna, il crudele a questa ancor diè morte. Garzon superbo e di sé stesso amante era quel fior; quell'altro al Sol converso, una ninfa, a cui nocque esser gelosa. Il canto che alla queta ombra notturna ti vien sì dolce da quel bosco al core, era il lamento di regal donzella da re tiranno indegnamente offesa. Quel lauro onor de' forti e de' poeti, quella canna che fischia, e quella scorza che ne' boschi sabei lagrime suda, nella sacra di Pindo alta favella ebbero un giorno e sentimento e vita. Or d'aspro gelo aquilonar percossa Dafne morì; ne' calami palustri più non geme Siringa; ed in quel tronco cessò di Mirra l'odoroso pianto. Ov'è l'aureo tuo carro, o maestoso portator della luce, occhio del Mondo? Ove l'Ore danzanti? ove i destrieri fiamme spiranti dalle nari? Ahi misero! In un immenso, inanimato, immobile globo di foco ti cangiãr le nuove poetiche dottrine, alto gridando: - Fine ai sogni e alle fole, e regni il Vero. Magnifico parlar! degno del senno che della Stoa dettò l'irte dottrine, ma non del senno che cantò d'Achille l'ira, e fu prima fantasia del Mondo. Senza portento, senza meraviglia nulla è l'arte de' carmi, e mal s'accorda la meraviglia ed il portento al nudo arido Vero che de' vati è tomba. Il mar che regno in prima era d'un Dio scotitor della terra, e dell'irate procelle correttore, il mar soggiorno di tanti Divi al navigante amici e rallegranti al suon di tube e conche il gran padre Oceàno ed Amfitrite, che divenne per voi? Un pauroso di sozzi mostri abisso. Orche deformi cacciãr di nido di Nereo le figlie, ed enormi balene al vostro sguardo fur più belle che Dori e Galatea. Quel Nettuno che rapido da Samo move tre passi, e al quarto è giunto in Ega; quel Giove che al chinar del sopracciglio tremar fa il Mondo, e allor ch'alza lo scettro mugge il tuono al suo piede, e la trisulca folgor s'infiamma di partir bramosa; quel Pluto che, al fragor della battaglia fra gl'Immortali, dal suo ferreo trono balza atterrito, squarciata temendo sul suo capo la Terra e fra i sepolti intromessa la luce, eran pensieri che del sublime un dì tenean la cima. Or che giacquer Nettuno e Giove e Pluto dal vostro senno fulminati, ei sono nomi e concetti di superbo riso, perché il Ver non v'impresse il suo sigillo, e passò la stagion delle pompose menzogne achee. Di fé quindi più degna cosa vi torna il comparir d'orrendo spettro sul dorso di corsier morello venuto a via portar nel pianto eterno disperata d'amor cieca donzella, che, abbracciar si credendo il suo diletto, stringe uno scheltro spaventoso, armato d'un oriuolo a polve e d'una ronca; mentre a raggio di luna oscene larve danzano a tondo, e orribilmente urlando gridano: pazienza, pazienza. Ombra del grande Ettorre, ombra del caro d'Achille amico, fuggite, fuggite, e povere d'orror cedete il loco ai romantici spettri. Ecco, ecco il vero mirabile dell'arte, ecco il sublime. Di gentil poesia fonte perenne (a chi saggio v'attigne), veneranda mitica Dea! qual nuovo error sospinge oggi le menti a impoverir del Bello dall'idea partorito, e in te sì vivo, la delfica favella? E qual bizzarro consiglio di Maron chiude e d'Omero a te la scuola, e ti consente poi libera entrar d'Apelle e di Lisippo nell'officina? Non è forse ingiusto proponimento, all'arte, che sovrana con eletto parlar sculpe e colora, negar lo dritto delle sue sorelle? Dunque di Psiche la beltade, o quella che mise Troia in pianto ed in faville, in muta tela o in freddo marmo espressa, sarà degli occhi incanto e meraviglia; e se loquela e affetti e moto e vita avrà ne' carmi, volgerassi in mostro? Ah! riedi al primo officio, o bella Diva, riedi, e sicura in tua ragion col dolce delle tue vaghe fantasie l'amaro tempra dell'aspra Verità. Nol vedi? Essa medesma, tua nemica in vista, ma in segreto congiunta, a sé t'invita: ché non osando timida ai profani tutta nuda mostrarsi, il trasparente mistico vel di tue figure implora, onde mezzo nascosa e mezzo aperta, come rosa che al raggio mattutino vereconda si schiude, in più desio pungere i cuori ed allettar le menti. Vien, ché tutta per te fatta più viva ti chiama la Natura. I laghi, i fiumi, le foreste, le valli, i prati, i monti, e le viti e le spiche e i fiori e l'erbe e le rugiade e tutte alfin le cose (da che fur morti i Numi, onde ciascuna avea nel nostro immaginar vaghezza ed anima e potenza) a te dolenti alzan la voce e chieggono vendetta. E la chiede dal ciel la luna e il sole e le stelle, non più rapite in giro armonioso, e per l'eterea volta carolanti, non più mosse da dive intelligenze, ma dannate al freno della legge che tira al centro i pesi: potente legge di Sofia, ma nulla ne' liberi d'Apollo immensi regni, ove il diletto è prima legge, e mille mondi il pensiero a suo voler si crea. Rendi dunque ad Amor l'arco e gli strali, rendi a Venere il cinto; ed essa il ceda a te, divina Antonietta, a cui (meglio che a Giuno nel meonio canto) altra volta l'avea già conceduto, quando, novella Venere, di tua folgorante beltà nel vago aprile d'amor l'alme rapisti, e mancò poco che lungo il mar di Giano a te devoti non fumassero altari e sacrifici. Tu, donna di virtù, che all'alto core fai pari andar la gentilezza, e sei dolce pensiero delle Muse, adopra tu quel magico cinto a porre in fuga le danzanti al lunar pallido raggio maliarde del Norte. Ed or che brilla nel tuo larario d'Imeneo la face, di Citerea le veci adempi, e desta ne' talami del figlio, allo splendore di quelle tede, gl'innocenti balli delle Grazie mai sempre a te compagne.